Neuroni
umani rivelano interazioni tra geni e ambiente nel PTSD
GIOVANNI ROSSI
NOTE E
NOTIZIE - Anno XIX – 29 ottobre 2022.
Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale
di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie
o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione
“note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati
fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui
argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: RECENSIONE]
L’eziopatogenesi
del disturbo da stress post-traumatico (PTSD) ha nell’oggettività
traumatica dell’esperienza vissuta dal paziente un elemento imprescindibile, che
è necessario ma non sufficiente per lo sviluppo della sindrome
psichiatrica. Infatti, perché si abbia PTSD sono necessarie condizioni predisponenti
dell’organismo pragmaticamente identificate dalla ricerca con fattori di
rischio genetico nel loro rapporto con la neurofisiologia dell’encefalo. Anche
se lo studio dei disturbi da trauma psichico si è concentrato tra la fine dell’Ottocento
e l’inizio del Novecento sulle conseguenze di disastri ferroviari, terremoti,
eruzioni, inondazioni e altre calamità naturali, la prima esperienza
traumatica, che rimane anche l’elemento eziologico costantemente presente in
tutte le epoche, è la guerra.
Per questa
ragione, l’argomento è stato trattato da Giovanna Rezzoni a proposito dei danni
cerebrali causati dai traumi bellici, e in quell’articolo, al quale si rimanda
per ogni approfondimento al riguardo[1],
si rileva che la medicalizzazione dei disturbi da stress, in precedenza
non riconosciuti come patologia, ha inizio con la descrizione di una sindrome
traumatica sul campo di battaglia. La guerra come minaccia per la vita delle
persone:
“Nel 1871, durante
la Guerra civile Americana, un medico di nome Da Costa[2]
descrisse una sindrome che colpiva i soldati esposti allo stress del
combattimento, caratterizzata da spossatezza, irritabilità, costante stato di
allerta, elevata frequenza cardiaca ed accentuazione generalizzata delle
risposte fisiologiche. Da Costa focalizzò l’attenzione sulle manifestazioni
cardiovascolari, facilmente rilevabili con la semeiotica fisica, per l’aumento
della forza di contrazione cardiaca associato a tachiaritmie ed innalzamento
della pressione arteriosa, e si rese conto dell’origine “riflessa” dei sintomi.
Definì, perciò, questa patologia Soldier’s Irritable Heart (cuore
irritabile del soldato).
Da notare che
Da Costa considerò il cuore irritabile parte di una sindrome di
attivazione da stress interessante tutto l’organismo e, anche se ne
studiò solo gli aspetti organici, ne comprese a fondo l’eziologia psichica
dovuta alle condizioni di paura e di tensione estreme[3].
Il cuore
irritabile del soldato fu da allora ribattezzato con l’eponimo del medico
americano, Da Costa’s Syndrome, la cui descrizione è importante perché
rappresenta la prima formulazione nosografica di un disturbo da stress”[4].
Ma perché
nelle stesse condizioni alcuni stavano così male da rimanere “traumatizzati”,
da sviluppare una vera e propria condizione di malattia, mentre altri
superavano il momento di paura ritornando all’equilibrio funzionale precedente
il trauma? Ci si chiedeva fin dal tempo di Da Costa e poi osservando gli
effetti dei traumi bellici nelle epoche seguenti. Si comprese presto che non
erano i più timorosi a sviluppare il disturbo: non era la sindrome dei codardi,
ma una reazione che sembrava avere cause genetiche.
Da tempo la
ricerca ha focalizzato l’attenzione sui rapporti tra fattori genetici e ambientali
responsabili del PTSD, ma non ha finora acquisito dati significativi. Un nuovo
studio condotto da Carina Seah e numerosi colleghi ha
definito modelli di interazione geni-ambiente in neuroni glutammatergici con
cellule staminali umane pluripotenti indotte (hiPSC) di
reduci di guerra affetti da PTSD (e con monociti del sangue periferico) e li ha
comparati con quelli ottenuti da soggetti sani di controllo. I risultati sono
significativi e interessanti.
(Seah C. et al.,
Modeling gene-environment interactions in PTSD using human neurons reveals
diagnosis specific glucocorticoid-induced gene expression. Nature Neuroscience
– Epub ahead of print doi: 10.1038/s41593-022-01161-y, 2022).
La provenienza degli autori è la seguente: Pamela Sklar Division of Psychiatric Genomics, Department of
Psychiatry or Department of Genetics and Genomic Sciences, Icahn School of Medicine
at Mount Sinai, New York, NY (USA); Nash Family Department of Neuroscience or
Friedman Brain Institute, Icahn School of Medicine at Mount Sinai, New York, NY
(USA); The New York Stem Cell Foundation Research Institute, New York, NY (USA);
James J. Peters Veterans Affairs Medical Center, Bronx, NY (USA).
Riprendendo dalla menzione della prima sindrome da stress
della storia della nosografia, prima di esporre il contenuto dello studio qui
recensito, si propone il percorso storico che ha preceduto la definizione della
diagnosi di PTSD come è stato ricostruito dal nostro presidente, nella sintesi
di Giovanna Rezzoni[5].
Dopo Da Costa e
il cuore irritabile del soldato, in Europa Emil Kraepelin – uno
psichiatra di caratura accademica internazionale noto per la sua opera nosografica
e per il contributo allo studio della dementia praecox, definita schizofrenia
dal suo allievo Eugen Bleuler – introdusse la categoria della schreckneurose[6],
letteralmente “nevrosi da spavento”[7],
resa in inglese con fright neurosis e adottata negli anni seguenti nella
denominazione diagnostica di disturbi indotti da eventi bellici.
Kraepelin non
azzarda ipotesi sui meccanismi alla base della fisiopatologia ma, forse anche tenendo
in considerazione i dettagliati resoconti di Da Costa, non sottovaluta la risposta
neurovegetativa cardiovascolare, ritiene che il processo sia di origine
psichica con estesa e intensa espressione organica, e cerca di spiegarlo con
queste parole: “[una condizione] composta da molti fenomeni nervosi e psichici
insorgenti come risultato di un grave sconvolgimento emozionale o di un improvviso
spavento che abbia accumulato grande ansietà”[8].
Sigmund Freud
fu molto attento agli effetti della guerra sulla psiche umana e nel 1915, “consultato
circa il crescente numero di vittime della tensione e dell’angoscia che si
producevano in battaglia, fornì la diagnosi di kriegneurose
o war neurosis o ‘nevrosi di guerra’, attribuendone la causa al
conflitto che si determinava fra l’impulso di fuggire e il dovere di combattere”[9].
Non è
superfluo rilevare che fino a quest’epoca, e ancora nei decenni successivi fino
alla II Guerra Mondiale, l’impatto della guerra sulla salute della persona era
riferito quasi esclusivamente all’esperienza dei militari; sebbene già i
bombardamenti della I guerra Mondiale avessero richiamato l’attenzione degli
psichiatri sui civili, solo con il secondo conflitto mondiale, con la guerra
come distruzione di massa di popolazioni inermi, la medicina e la psichiatria
indagano gli effetti della guerra sulle circostanze di vita e sulla salute di
tutti i cittadini.
Dopo Freud,
numerosi medici descrissero sintomi prodotti dallo stress del fronte e
della vita militare durante i conflitti, concentrandosi particolarmente su
segni amnesici o cognitivi “come dimenticare il proprio nome sul campo di
battaglia, essere in uno stato stuporoso o dimenticare dati di conoscenza
personale sempre ricordati o eventi gravi appena accaduti durante il conflitto.
A seguito dei bombardamenti, in altri soldati prevalevano sintomi quali
paralisi, mutismo, cecità, tremori intrattabili e ansia intensa.
In assenza di
fattori etiologici materiali ben riconoscibili che giustificassero queste
manifestazioni, si concluse che il cervello riportasse un danno concussivo per
l’esplosione ravvicinata, che si esprimeva con questa varietà di sintomi. A
questa condizione, nel 1915, fu dato il nome di Shell Shock, che si può
rendere in italiano con Shock da bombardamento (da to shell =
bombardare)”[10].
La definizione
di shock da bombardamento faceva entrare nella competenza medica la
condizione di malessere soggettivo (illness
non disease) e, se da un canto fu positivo
perché induceva i medici a occuparsi dei disturbi di questi pazienti e,
seguendo l’impostazione di Da Costa, a somministrare loro sintomatici,
palliativi e antalgici, dall’altro fu involontariamente negativo, perché questi
pazienti venivano ospedalizzati con lunghe o lunghissime degenze, che
favorivano lo sviluppo di inibizione, depressione e consolidamento di alcuni
sintomi psichici derivati dal trauma. Pochi facevano ricorso alla psicoanalisi,
l’unico trattamento psicoterapeutico esistente all’epoca. Quando fu chiaro che
le lunghe ospedalizzazioni favorivano la cronicizzazione e il peggioramento in
una parte considerevole di affetti da shock da bombardamento, si decise
di considerare la sindrome come una “entità puramente psicologica”, con la
conseguenza di far uscire nuovamente questo stato dall’ambito medico, favorendo
le insinuazioni di malattia immaginaria o simulazione, lasciando in pochi casi
una porta aperta per l’ambulatorio psichiatrico con l’assimilazione a una
sindrome isteriforme, ovvero lo sviluppo di sintomi per processi inconsci che finivano
per produrre un vantaggio secondario al paziente.
Alfred Adler,
allievo e poi collaboratore di Freud, lavorando tra il 1915 e il 1920 sui casi
dovuti alla guerra del ’15-’18, distinse due forme di nevrosi dovute all’esperienza
traumatica, una ad insorgenza precoce e l’altra ad insorgenza tardiva. Nello
stesso periodo, Pierre Janet descrisse la scissione della coscienza, per
effetto del trauma, in due processi paralleli che potevano o meno essere
coscienti l’uno dell’altro, dando luogo alla concezione di dissociazione
che è giunta fino a noi, ed è conservata nella definizione dell’amnesia temporanea
da trauma quale “amnesia dissociativa”[11].
Gli studi
condotti durante il primo conflitto mondiale per la prima volta hanno portato
alla distinzione tra disturbi acuti e disturbi cronici causati dai traumi
bellici: “Lo studio delle Nevrosi di Guerra e dello Shell Shock riconosce una causa
acuta alle amnesie sul campo di battaglia, ma si fa carico anche del perdurare
dei sintomi da stress, attribuito ad un affaticamento da combattimento del
sistema nervoso; infatti, Mott (1919)[12]
e altri (1915-18, 1920-30) introducono la categoria nosografica della Combat
Fatigue (lett.: affaticamento da combattimento). Durante la I guerra
Mondiale sono diagnosticati 80.000 casi di Sindrome di Da Costa fra i
soldati inglesi. Si va affermando una dicotomia fra sindromi psichiche (Combat
Fatigue, Shell Shock e Nevrosi di Guerra) e sindromi fisiche
prevalentemente cardiovascolari (Cuore irritabile del soldato)”[13].
Ma non mancano
i passi indietro, in questo percorso di conoscenza clinica. Alcuni autori,
infatti, non ritengono che l’impatto dello stressor, come fenomeno o evento
traumatico, sia di per sé capace di causare un disturbo, e in particolare
quelle sindromi che si chiamavano allora psiconevrosi emozionali, la cui
psicogenesi era sempre e solo attribuita a un conflitto intrapsichico: “Kardiner
e Spiegel (1930-1938) interpretano i sintomi e i disturbi a distanza dagli
eventi traumatici presentati dai veterani della I guerra Mondiale come il ‘perdurare
della rottura delle funzioni egoiche’, diagnosticando una psiconevrosi (Psychoneurosis), ovvero una nevrosi basata su un
conflitto emozionale. Negano però la possibilità di patologia cronica da stress”[14].
Questo approccio,
tuttavia, non si generalizza e la realtà degli effetti acuti causati dai
bombardamenti del secondo conflitto planetario diviene clinicamente prioritaria
nella medicina di pronto soccorso, come in neurologia e psichiatria: “L’interesse
per le manifestazioni amnesiche e dissociative da stress si riaccende per la
vasta casistica dovuta alla II Guerra Mondiale (1939-45). Sargent e Slater (1941)
propongono le War Amnesic Syndromes,
ossia le sindromi amnesiche da guerra.
Torrie (1944) studia
la patologia psicosomatica da stress (Psychosomatic
Syndromes) particolarmente in Medio Oriente ed
evidenzia il suo rapporto con le reazioni amnesiche. Descrive fenomeni amnesici
molto estesi, ad esempio riferisce che poco dopo l’inizio di un combattimento
in Nord Africa il 5% dei soldati che vi prendevano parte non se ne ricordavano
più.
Grinker e Spiegel,
che introdussero la definizione di Combat Neuroses,
sono gli autori di un volume considerato a lungo una pietra miliare nello
studio degli effetti psicologici dello stress: Men Under Stress (1945)[15].
Il loro sforzo di sintesi coerente dei vari sintomi psichici e fisici, attribuiti
prevalentemente all’eccessiva produzione di adrenalina, li porta ad organizzare
i molteplici aspetti clinici in distinte forme di nevrosi”[16].
Gli orrori
bellici consentono di rendersi conto del danno cronico causato sui civili e non
solo degli effetti acuti da trauma. La guerra logora e distrugge la personalità
in alcuni casi, come quando la barbarie degli eserciti si accanisce in modi
diversi di tortura e uccisione sulla popolazione civile, attraverso la
deportazione nei campi di sterminio, dove Ebrei e altre minoranze etniche venivano
affamati, torturati, sottoposti a regimi di lavoro intollerabili e poi uccisi
nelle camere a gas e nei forni crematori.
“Eitinger
nello studio dei sopravvissuti ai campi di concentramento nazisti, condotto dal
1948 al 1965 prevalentemente in Israele e Norvegia[17],
fornisce la prima esaustiva descrizione della sindrome da stress cronico,
caratterizzata da astenia, umore depresso, apatia, difficoltà di
concentrazione, diminuzione della memoria, ansia, cefalea, disturbi del sonno,
incubi, pensieri intrusivi, stato di allerta e tendenza a preoccuparsi.
Definisce questo quadro Concentration Camp
Syndrome, ritenendolo espressione di una risposta cronica di qualità
nevrotica allo stress protratto.
Altri studi
confermarono il rilievo di questi sintomi a molti anni di distanza dall’internamento,
rilevando anche sentimenti di distacco ed estraniazione dagli altri e il
ricorrente attualizzarsi di ricordi nella forma di veri e propri incubi diurni
(Thygesen e coll., 1970)”[18].
La prima
edizione del Manuale Diagnostico e Statistico (DSM) dell’American
Psychiatric Association, pubblicata nel 1952, per effetto dei numerosi
studi sulla vasta casistica di patologia da stress causata dalla II Guerra
Mondiale, include la categoria diagnostica della gross
stress reaction. La seconda edizione del DSM, edita nel 1968 a una
generazione di distanza dagli eventi bellici, elimina la diagnosi di gross stress reaction, legata dunque solo
alla guerra.
Seguiamo ciò
che accade riprendendo la lettura del saggio del nostro presidente:
“Ma i temi e i
problemi della psicopatologia traumatica furono drammaticamente riproposti da
un altro conflitto: la guerra del Vietnam.
Lawrence Kolb,
assistendo e trattando i reduci della guerra del Vietnam, ebbe l’opportunità di
studiare a fondo le loro condizioni, riportando in auge le conoscenze acquisite
in passato ed apportando rilevanti contributi originali. Fra questi, il
riscontro di un rapporto fra la condizione fisiopatologica sistemica e lo stato
psichico generale, originò da un’osservazione casuale. Infatti gli capitò di
osservare, non visto, i suoi pazienti in attesa nella sua sala d’aspetto: dov’erano
seduti gli volgevano le spalle ed aspettavano il loro turno mentre la sua
segretaria scriveva a macchina. Lo psichiatra americano notò che ogni volta che
il carrello della macchina da scrivere della sua segretaria segnalava la fine
della riga con il tipico suono di campanello, i pazienti sobbalzavano. Avevano un
vero e proprio sussulto sulla sedia. Kolb chiamò questa reazione startle response e
l’attribuì ai livelli di nor-adrenalina cronicamente
alti in queste persone, come conseguenza dello stress”[19].
Sulla scorta
di questi studi, e soprattutto di quelli di Charles Figley
sui veterani del Vietnam[20],
si giunse nel 1980 a includere nella terza edizione del DSM, detto DSM III, la
diagnosi di Post Traumatic Stress Disorder.
L’anno dopo
comincia l’era contemporanea nello studio dei danni causati dalla guerra, con
il progressivo passaggio della priorità dallo studio della sintomatologia clinica
alle indagini sul cervello, favorite dalle nuove metodiche di diagnostica per
immagini, e in particolare dall’impiego della risonanza magnetica nucleare (RMN).
Oggi, per
avere un’idea generale e complessiva del male che la guerra può fare ai popoli,
si possono leggere le stime storico-statistiche di Clemens e Singer sui danni
delle guerre, che furono inserite nella pubblicazione di un corso tenuto nel
2000 alla Waseda University di Tokyo, insieme con un articolo di Boothby e Knusden, da Richard
Mollica, che ha dedicato gran parte della propria vita professionale all’assistenza
e all’analisi della psicopatologia dei sopravvissuti dei conflitti, diventando
un riferimento per gli psichiatri di tutto il mondo.
“Richard
Mollica, professore di psichiatria della Harvard Medical
School, è stato tra i fondatori nel 1981 dell’Harvard Program in Refugee Trauma, uno dei primi programmi per l’assistenza e
lo studio dei sopravvissuti alla violenza di massa e alla tortura, attualmente
considerato il progetto pilota in tutto il mondo per la ricerca clinica sul
Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD).
Nel 1988 un team
di psichiatri dell’Università di Harvard guidato da Richard Mollica fu inviato
a Site 2, il più grande campo di rifugiati cambogiani[21],
per uno studio condotto con il sostegno della World Federation for Mental Health. Furono intervistati 993 ospiti che riferirono
di torture, stupri, prigionie e rapimento di bambini, per un totale di 15000 diversi
episodi traumatici[22].
I casi di depressione clinica acuta e di PTSD furono stimati, rispettivamente,
nell’ordine del 68% e 37%; valori simili furono riscontrati in altre due
popolazioni di rifugiati: i Buhtanesi che vivono in
Nepal e i Bosniaci che vivono in Croazia[23].
Nel 1999, per
effetto degli accordi intercorsi fra i Khmer Rossi e il governo di Phnom Penh,
migliaia di rifugiati rientrarono dai campi: molti di essi presentavano sintomi
di depressione e di PTSD. Lo studio protratto consentì di accertare l’esistenza,
accanto a coloro che presentavano sintomi gravi, di un numero vastissimo di persone
affette da disturbi minori ma persistenti: “ferite invisibili” in grado di condizionare
il resto della vita”[24].
Ritorniamo allo studio qui recensito.
È stata specificamente studiata la risposta trascrizionale
all’idrocortisone, ossia al cortisolo, l’ormone dello stress per
eccellenza, da parte di neuroni glutammatergici derivati da cellule staminali
pluripotenti indotte (hiPSC), e da parte di monociti del sangue
periferico (PBMC) di reduci di guerra affetti da PTSD (donatori: n = 19 hiPSC, n =
20 PBMC) e si è
comparata alla risposta trascrizionale all’idrocortisone degli stessi
due tipi cellulari in soggetti sani equivalenti, fungenti da gruppo di
controllo (n = 20).
I ricercatori hanno rilevato, solo nei neuroni
glutammatergici, variazioni dell’espressione genica indotti dal cortisolo
specifici per la diagnosi e – cosa particolarmente rilevante – corrispondente agli
specifici patterns trascrittomici specifici per il PTSD ottenuti dallo
studio di neuroni prelevati post-mortem dal cervello di pazienti
deceduti.
Carina Seah e colleghi hanno accertato e documentato una
significativa e rilevante ipersensibilità ai glucocorticoidi dei neuroni delle
persone affette da PTSD e hanno specificamente identificato i geni (per la cui identità
si rimanda al testo dell’articolo originale) che contribuiscono a questa
risposta ai glucocorticoidi PTSD-dipendente. Hanno poi trovato evidenze di una rete
co-regolata di fattori di trascrizione che media l’iper-responsività nel
PTSD.
Questi
risultati indicano che i neuroni indotti possono costituire una piattaforma e
un modello utile per lo studio dei meccanismi molecolari sottostanti la
sindrome clinica del disturbo da trauma psichico, per identificare biomarker
della risposta allo stress, e condurre screening molecolari finalizzati
all’identificazione sperimentale di nuovi potenziali farmaci per il trattamento
del PTSD e di altri disturbi da stress accostabili per patogenesi e
gravità.
L’autore della nota ringrazia
la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle
recensioni di
argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito
(utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).
Giovanni Rossi
BM&L-29 ottobre
2022
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Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484,
come organizzazione scientifica e culturale non-profit.
[1] Note e Notizie 12-03-22 Danni
della guerra al cervello dei superstiti.
[2]
J. Douglas Bremner, Does Stress Damage the Brain?, p. 27, Norton, New
York 2002.
[3] Da Costa J. M., On irritable heart: A clinical study of a form of
functional cardiac disorder and its consequences. American Journal of Medical Science
161, 17-52, 1871.
[4] Giuseppe Perrella, Il
Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD), pp. 13-14, Dipartimento di
Neuroscienze dell’Università Federico II, Napoli 2005.
[5] Note e Notizie 12-03-22 Danni
della guerra al cervello dei superstiti.
[6] Giuseppe Perrella, Il
Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD), op. cit., p. 14.
[7] Cfr. Saigh P. A. & Bremner J. D. (editors),
Posttraumatic stress disorder: a comprehensive text, Allyn & Bacon
Needham Heights, Massachusetts, 1999, cit. in J. Douglas Bremner, op. cit, p.
71.
[8] Emil Kraepelin, Psychiatrie, Vol.
V, p. 737, Auflage, Barth, Leipzig (1896-1985),
qui citato nella traduzione di G. Perrella dalla versione inglese di Jablensky (G. Perrella, op cit., p. 14 v. anche per la cit.
completa da Kraepelin), adottata anche da J. Douglas Bremner, op. cit. p. 71.
[9] Giuseppe Perrella, Il Disturbo
Post-Traumatico da Stress (PTSD), op. cit., p. 15.
[10] Giuseppe Perrella, Il
Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD), op. cit., p. 16.
[11] Giuseppe Perrella, op. cit., pp.
16-17.
[12] Cfr. F. W. Mott, War neuroses and shell shock. Oxford University Press, London
1919.
[13] Giuseppe Perrella, op. cit., p.
18.
[14] Successivamente Abram Kardiner
ammette questa possibilità interpretandola in chiave psicoanalitica come
sindrome che “può incorporarsi nella personalità in modi differenti”, come si può
leggere nel capitolo dedicato alle nevrosi traumatiche di guerra nell’American
Handbook of Psychiatry (Silvano Arieti, Manuale
di Psichiatria in tre voll., vol. I, p. 242, Boringhieri, Torino 1985).
[15] Grinker R. R. & Spiegel J. P., Men Under Stress. Blackiston, Philadelphia 1945.
[16] Giuseppe Perrella, op. cit., pp.
18-19.
[17]
Leo Eitinger, Concentration Camp Survivors in Norway and Israel. Allen and Unwin,
London 1965.
[18] Giuseppe Perrella, op. cit., pp.
19-20.
[19] Giuseppe Perrella, op. cit., pp.
23-24.
[20] Charles Figley (editor), Stress Disorders among Vietnam
Veterans. Brunner-Mazel, New York 1978.
[21] “Site 2” fa parte dei campi per
i rifugiati che furono allestiti dall’ONU fra la Thailandia e la Cambogia.
[22] Richard F. Mollica, Invisible Wounds, Scientific American
Vol. 282, Number 6, 36-39, 2000.
[23] Richard F. Mollica et al., JAMA
282, 433-439, 1999.
[24] Giuseppe Perrella, op. cit., pp.
32-33.